«Sono stato battezzato e educato nella fede cristiana ortodossa. Me la insegnarono fino dall’infanzia e durante tutto il periodo della adolescenza e della prima giovinezza. Ma quando, a diciotto anni, abbandonai l’università al secondo corso, io non credevo ormai più a nulla di quello che mi avevano insegnato.
A giudicare da alcuni ricordi, non ho neanche mai creduto seriamente, avevo soltanto fiducia in quello che mi insegnavano e in quello che professavano davanti a me i grandi; però quella fiducia era molto vacillante.
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Il mio distacco dalla fede avvenne in me così come avveniva ed avviene ora nelle persone del nostro tipo di cultura. Esso, mi sembra, nella maggioranza dei casi avviene così: gli uomini vivono come vivono tutti, e tutti vivono fondandosi su princìpi che non solo non hanno nulla in comune con la dottrina della fede, ma che per lo più sono contrari ad essa; la dottrina della fede non ha una sua parte nella vita, e nelle relazioni con le altre persone non accade mai di imbattersi in essa, così come nella nostra vita non ci accade mai di consultarla; la dottrina della fede viene professata in un qualche luogo, lontano dalla vita e indipendentemente da essa. Se ci troviamo ad avere a che fare con essa, è soltanto come con un fenomeno esterno, non collegato con la vita.
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Così è potuto accadere e accade, penso, alla stragrande maggioranza degli uomini. Parlo delle persone del nostro tipo di cultura, parlo delle persone sincere con se stesse e non di coloro che dell’oggetto stesso della fede si fanno un mezzo per raggiungere dei fini transitori, quali che essi siano. (Queste persone sono i più radicali non credenti, poiché, se per loro la fede è un mezzo per raggiungere un qualsivoglia scopo di vita, essa davvero non è più fede). Queste persone del nostro tipo di cultura si trovano in una posizione in cui la luce del sapere e della vita ha fatto crollare un edificio fittizio, sia che esse se ne siano già accorte ed abbiano lasciato libero quel posto, sia che non se ne siano ancora accorte.
La dottrina della fede che mi era stata insegnata fin dall’infanzia è scomparsa in me, così come negli altri, con l’unica differenza che, siccome avevo cominciato molto presto a leggere e a pensare, il mio rifiuto della dottrina e della fede assai presto divenne cosciente. Fin dall’età di sedici anni avevo smesso di inginocchiarmi per la preghiera, e avevo smesso di andare in chiesa per mia iniziativa e di digiunare. Cessai di credere in quello che mi era stato insegnato sin dall’infanzia, ma in qualche cosa credevo.
In che cosa credevo non avrei potuto assolutamente dirlo. Credevo anche in Dio o, più semplicemente, non negavo Dio ma in quale Dio non avrei potuto dirlo; io non negavo neppure Cristo né il suo insegnamento ma in che cosa consistesse il suo insegnamento, anche questo non avrei potuto dirlo.
Oggi, ricordando quel tempo, vedo chiaramente che la mia fede – ciò che all’infuori degli istinti animali muoveva la mia vita – l’unica autentica mia fede in quel tempo era la fede nel perfezionamento. Ma in che cosa consistesse il perfezionamento e quale fosse il suo fine, non avrei potuto dirlo. Io mi sforzavo di perfezionarmi intellettualmente, imparavo tutto quel che potevo, tutto quello verso cui la vita mi spingeva; mi sforzavo di perfezionare la mia volontà: mi ero compilato delle regole che mi sforzavo di seguire; mi perfezionavo fisicamente, esercitando la forza e la destrezza con ogni specie di attività e allenandomi alla resistenza e alla pazienza con privazioni di ogni specie. E tutto ciò io lo consideravo perfezionamento. L’inizio di tutto era stato, si capisce, il perfezionamento morale, ma presto era stato sostituito dal perfezionamento in generale, cioè dal desiderio di essere migliore non dinnanzi a me stesso o dinnanzi a Dio, bensì dal desiderio di essere migliore dinnanzi agli altri uomini. E molto presto questa aspirazione ad essere migliore dinnanzi agli uomini fu sostituita dal desiderio di essere più forte degli altri uomini, cioè più celebre, più importante, più ricco degli altri.
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Un giorno o l’altro racconterò la storia della mia vita, storia commovente e istruttiva in quei dieci anni della mia giovinezza. Penso che molti, moltissimi abbiano passato le stesse prove. Io con tutta l’anima desideravo essere buono; ma ero giovane, preda delle passioni, ed ero solo, completamente solo quando cercavo il bene. Ogni volta, quando tentavo di manifestare quello che formava il mio più intimo desiderio: cio che volevo essere moralmente buono, io incontravo disprezzo e canzonature; ma non appena mi abbandonavo a ripugnanti passioni, mi lodavano e mi incoraggiavano. L’ambizione, l’amore del potere, la cupidigia, la lussuria, la superbia, l’ira, la vendetta: tutto questo veniva rispettato. Quando mi abbandonavo a queste passioni diventavo simile a un grande e sentivo che erano contenti di me. La mia buona zietta, con la quale vivevo, che era l’essere più puro di questo mondo, mi diceva sempre che nient’altro avrebbe desiderato per me quanto che io avessi una relazione con una donna sposata: “Rien ne forme un jeune homme comme une liaison avec une femme comme il faut”; ed ella mi augurava anche un’altra fortuna: quella di essere aiutante di campo e, meglio di tutto aiutante di campo addetto al sovrano; e poi, felicità suprema, che io sposassi una ragazza molto ricca perché, in conseguenza di tale matrimonio, potessi avere quanti più schiavi possibile. Non posso ricordare quegli anni senza orrore, senza disgusto, senza un dolore al cuore. Uccidevo uomini in guerra, li sfidavo a duello per ucciderli, continuavo a perdere al gioco, dilapidavo il frutto del lavoro dei muziki, e somministravo loro punizioni, commettevo adulterio, ingannavo. Menzogna, ruberia, fornicazioni di ogni genere, ubriachezza, violenza, assassinio… Non vi era delitto che io non commettessi e per tutto questo i miei coetanei mi lodavano e mi consideravano un uomo relativamente morale.
Così vissi dieci anni.
Nel frattempo mi misi a scrivere per vanagloria, per cupidigia e per superbia. Nei miei scritti facevo ciò che facevo nella vita. Per avere la gloria e i denari in vista dei quali scrivevo, bisognava nascondere il bene e mostrare il male. E io facevo proprio così. Quante volte mi sono ingegnato di nascondere nei miei scritti, sotto una patina di indifferenza e perfino di leggera ironia, le aspirazioni al bene che costituivano il senso della mia vita. E questo io raggiunsi, che mi lodarono.
A ventisei anni, dopo la guerra, andai a Pietroburgo e mi legai con gli scrittori. Mi accolsero come uno di loro e mi adularono. Non feci in tempo a guardarmi intorno che le opinioni sulla vita di quegli uomini con i quali mi ero legato – proprie al ceto degli scrittori – si erano impadronite di me e avevano già completamente cancellato in me tutti i precedenti tentativi di diventare migliore. Quelle opinioni fornirono alla dissolutezza della mia vita la teoria che la giustificava.
L’opinione sulla vita di quegli uomini, miei consoci nello scrivere, era questa: che la vita in generale va avanti e si sviluppa e che in questo sviluppo la parte principale è quella di noi, uomini di pensiero, ma tra gli uomini di pensiero l’influenza maggiore l’abbiamo noi artisti, poeti. La nostra vocazione è quella di insegnare agli uomini. Affinché a ognuno di noi non si presentasse questa naturale domanda: che cosa so io e che cosa devo insegnare?, in tale teoria veniva spiegato che ciò non era necessario saperlo e che l’artista e il poeta insegnano inconsciamente. Io venivo considerato un poeta e un artista meraviglioso, e perciò era per me molto naturale adottare tale teoria. Io – artista, poeta – scrivevo, insegnavo senza sapere io stesso che cosa. Per questo mi pagavano, ed io avevo un buonissimo mangiare, alloggio, donne, società, e avevo la gloria. Di conseguenza quello che insegnavo andava molto bene.
Tale fede nell’importanza della poesia e nello sviluppo della vita era un vero culto ed io ero uno dei suoi sacerdoti. Essere un suo sacerdote era molto vantaggioso e piacevole. Ed io abbastanza a lungo vissi in tale fede senza dubitare della sua verità. Ma durante il secondo e particolarmente durante il terzo anno di quella vita, cominciai a dubitare dell’infallibilità di quella fede e cominciai ad analizzarla. Primo motivo di dubbio fu il fatto che avevo cominciato ad osservare che non tutti i sacerdoti di quel culto erano d’accordo tra loro. Gli uni dicevano: noi siamo i maestri migliori e più utili, noi insegnamo ciò che è necessario e gli altri insegnano in modo sbagliato. E gli altri dicevano: noi siamo nel vero e voi insegnate in modo sbagliato. Ed essi discutevano, litigavano, si ingiuriavano, si ingannavano, si imbrogliavano l’un l’altro. Inoltre fra loro c’erano molte persone che non si preoccupavano neppure di chi fosse nel giusto e chi no, ma semplicemente avevano raggiunto i loro scopi interessati con l’aiuto di questa nostra attività. Tutto ciò mi spinse a dubitare della sincerità della nostra fede.
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Ma lo strano è che per quanto avessi capito ben presto tutta la menzogna di quella fede e l’avessi rinnegata, pur tuttavia al rango datomi da quella gente – al rango di artista, di poeta, di maestro – io non rinunziai. Ingenuamente mi figuravo di essere poeta, artista, di poter insegnare a tutti, senza sapere io stesso che cosa insegnavo. E così continuavo a fare.
Dal contatto con quegli uomini ricavai un nuovo vizio: una superbia spinta fino alla morbosità e la folle sicurezza di essere chiamato ad insegnare agli uomini senza sapere io stesso che cosa. Ora ricordare quel tempo, ricordare il mio stato d’animo d’allora e lo stato d’animo di quelle persone (come loro, del resto, ve ne sono ancora a migliaia) per me è penoso e terribile e ridicolo; mi suscita esattamente la stessa sensazione che si prova in un manicomio.
Noi tutti allora eravamo convinti che bisognasse parlare e parlare, scrivere, stampare il più possibile e il più presto possibile, che tutto ciò fosse necessario per il bene dell’umanità. E noi, a migliaia, smentendoci e ingiuriandoci l’un l’altro, non facevamo che pubblicare, scrivere, per istruire gli altri. E, senza accorgerci che non sapevamo nulla, che al più semplice problema della vita – che cosa è bene, che cosa è male? – non sapevamo cosa rispondere, noi tutti senza ascoltarci l’un l’altro parlavamo tutti contemporaneamente, talvolta indulgendo e lodandoci l’uno con l’altro affinché anche con noi fossero indulgenti e ci lodassero, e talvolta invece irritandoci e urlando uno più forte dell’altro, proprio come in un manicomio.
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Terribilmente strano, ma ora per me chiarissimo. La vera intima teoria nostra era questa: fare in modo di avere quanti più denari e lodi possibile. Per raggiungere questo scopo noi non sapevamo far altro che scrivere libretti e giornali. E questo facevamo. Ma affinché noi si potesse fare una cosa talmente inutile, pur essendo persuasi di essere persone molto importanti, avevamo bisogno anche di una teoria che giustificasse la nostra attività. Ed ecco che inventammo quanto segue: tutto ciò che è reale è razionale. E tutto ciò che è reale si sviluppa. Ma tutto si sviluppa per mezzo dell’istruzione. E l’istruzione si misura dalla diffusione dei libri, dei giornali. Ma a noi pagano denari e ci rispettano perché scriviamo libri e giornali, quindi noi siamo gli uomini migliori e più utili. Questa teoria sarebbe andata molto bene se noi tutti fossimo stati d’accordo; ma giacché contro ogni idea espressa da uno veniva sempre fuori un’idea diametralmente opposta, espressa da un altro, questo stesso fatto avrebbe dovuto farci ricredere. Ma di questo noi non ci accorgevamo. Ci pagavano, e le persone del nostro partito ci lodavano, di conseguenza ci ritenevamo nel giusto.
Ora è chiaro per me che non vi era nessuna differenza rispetto a un manicomio; ma allora lo sospettavo soltanto vagamente e, soltanto, come tutti i pazzi, davo del pazzo a tutti salvo che a me.
Così vissi, dedito a questa follia, ancora per sei anni, fino al mio matrimonio. Nel frattempo andai all’estero. La vita in Europa e il contatto con uomini europei colti e d’avanguardia mi confermò ancor più in quella fede nel perfezionamento in generale di cui mi ero fatto una ragione di vita, poiché quella stessa fede io la trovai anche in loro. Tale fede prese in me la solita forma, quella che essa ha presso la maggioranza degli uomini colti del nostro tempo. Tale fede veniva espressa con la parola “progresso”. Allora mi sembrava che con questa parola si esprimesse qualcosa. Io non capivo ancora che, tormentato, come ogni uomo vivente, dal problema di come fosse meglio per me vivere, io, rispondendo: vivere in conformità col progresso, dicevo esattamente quello che avrebbe detto un uomo, dalle onde e dal vento trasportato su una barchetta, di fronte al problema principale e unico per lui: “Dove dirigersi?” se egli, senza rispondere alla domanda, dicesse: “Da qualche parte sarò portato”.
Allora io non me ne accorgevo. Solo raramente non la ragione bensì il sentimento si ribellava contro questa superstizione, tipica del nostro tempo, per mezzo della quale gli uomini nascondono a se stessi la propria incomprensione della vita. Così, quando ero a Parigi, la vista di una esecuzione capitale mi rivelò quanto fosse fragile la mia superstizione del progresso. Quando vidi come la testa si staccava dal corpo e come l’una e l’altro, separatamente, andavano a sbattere nella cassa, allora capii, non con l’intelligenza, ma con tutto il mio essere, che non vi è alcuna teoria della razionalità dell’esistente e del progresso che possa giustificare un simile atto e che quand’anche tutti gli uomini al mondo, fin dalla sua creazione, basandosi su teorie quali che siano, trovassero che ciò fosse necessario, io so che ciò non è necessario, che ciò è male e che, quindi, arbitro di quel che è bene e necessario non è quel che dicono e fanno gli uomini, e neppure lo è il progresso, ma lo sono io, col mio cuore.»
Lev Tolstoj (1882), “La confessione”, Feltrinelli, Milano 2009.
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