Un tempo erano i lebbrosi, poi fu la volta delle malattie veneree, poi toccò ai folli. Da secoli (e ancora oggi), la società occidentale tende a respingere nella parte del confine invisibile, quelle forme di “diversità” in cui avrebbe potuto (e dovuto) riconoscersi in quanto portatrici di una delle tante “verità denudate” del genere umano. Si continua a far finta di credere che certe cose non possano appartenere agli uomini e si preferisce rinchiudere in uno spazio neutro tutto quello che disturba, nell’effimera illusione che ciò che è nascosto e annullato semplicemente non ci riguarda.
<< Alla fine del Medioevo la lebbra sparisce dal mondo occidentale. Ai margini della comunità, alle porte della città, si aprono come dei grandi territori che non sono più perseguitati dal male, ma che sono lasciati sterili e per lungo tempo abbandonati. Per secoli e secoli queste distese apparterranno all’inumano. Dal XIV al XVII secolo aspetteranno e solleciteranno, attraverso strani incantesimi, una nuova incarnazione del male, un’altra smorfia della paura, magie rinnovate di purificazione e di esclusione.
A partire dall’Alto Medioevo i lebbrosari avevano moltiplicato le loro città maledette in tutta la superficie dell’Europa. Secondo Mathieu Paris, in tutto il mondo cristiano ce ne sarebbero stati fino a diciannovemila. In ogni caso, verso il 1266, quando Luigi VII stabilisce per la Francia il regolamento dei lebbrosari, ne vengono recensiti più di duemila […].
Il fatto è che a partire dal XV secolo il vuoto si fa dappertutto: Saint-Germain, a partire dal secolo seguente, diventa una casa per giovani corrigendi; e prima di san Vincenzo non c’è più a Saint-Lazzare che un solo lebbroso, “il signor Langlois, avvocato della corte laica”. Il lebbrosario di Nancy, che figurò tra i più grandi d’Europa, ospita solo quattro malati, sotto la reggenza di Maria dei Medici.
[…]
Strana sparizione che non fu certamente l’effetto a lungo cercato di oscure pratiche mediche, ma il risultato di quella segregazione, e la conseguenza inoltre, dopo la fine delle crociate della rottura con i focolai di infezione orientali. La lebbra si ritira, lasciando senza occupazione quei luoghi miserabili e quei riti che non erano affatto destinati a sopprimerla, ma a mantenerla in una distanza consacrata, a fissarla in un’esaltazione inversa. Ciò che resterà certo più a lungo della lebbra e che si manterrà ancora in un’epoca in cui, già da molti anni, i lebbrosari saranno vuoti, sono i valori e le immagini che si erano legati al personaggio del lebbroso; è il significato di quella esclusione, l’importanza di quell’immagine insistente e temibile che non viene allontanata senza aver tracciato un cerchio sacro intorno ad essa.
Se il lebbroso viene ritirato dal mondo e dalla comunità della Chiesa visibile, la sua esistenza manifesta pur sempre Dio, poiché al tempo stesso indica la sua collera e mostra la sua bontà: “Amico mio”, dice il rituale della Chiesa di Vienna, “Nostro Signore vuole che tu sia infetto da questa malattia, e ti fa una grande grazia quando ti vuole punire dei peccati che hai commesso in questo mondo. […] E benché tu sia separato dalla Chiesa e dalla compagnia dei Sani, tuttavia non sei separato dalla grazia di Dio”. […] In una strana reversibilità che si oppone a quella dei meriti e delle preghiere, essi sono salvati dalla mano che non si tende. Il peccatore che abbandona il lebbroso sulla porta gli offre la salvezza. […] L’abbandono è per lui una forma di salvezza; la sua esclusione gli offre un’altra forma di comunione.
Sparita la lebbra, cancellato o quasi il lebbroso dalle memorie, resteranno queste strutture. Spesso negli stessi luoghi, due o tre secoli più tardi, si ritroveranno stranamente simili gli stessi meccanismi di esclusione. Poveri, vagabondi, corrigendi e “teste pazze” riassumeranno la parte abbandonata dal lebbroso. […] Con un senso tutto nuovo e in una cultura molto differente, le forme resisteranno: soprattutto quella importante di una separazione rigorosa che è esclusione sociale ma reintegrazione spirituale.
Dapprima furono le malattie veneree che dettero il cambio alla lebbra. Tutto a un tratto, alla fine del XV secolo, succedono alla lebbra come per diritto ereditario. Esse vengono accolti in numerosi ospedali per lebbrosi. […] I malati divengono ben presto così numerosi che bisogna pensare di costruire altri edifici. E’ nata una nuova lebbra che prende il posto della prima.
[…]
[…] Un nuovo oggetto fa la sua apparizione nel paesaggio immaginario del Rinascimento; ben presto occuperà in esso un posto privilegiato: è la “Nave dei folli”, strano battello ubriaco che fila lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi [il Narrenschiff].
[…] Di tutti questi vascelli romanzeschi o satirici, il “Narrenschiff” è il solo che abbia avuto un’esistenza reale, perché sono esistiti questi battelli che trasportavano il loro carico insensato da una città all’altra. I folli allora avevano spesso un’esistenza vagabonda. Le città li cacciavano volentieri dalle loro cerchie; li si lasciava scorrazzare in campagne lontane, quando non li si affidava a un gruppo di mercanti o di pellegrini.
[…] Ci sono città come Norimberga che non sono certo state dei luoghi di pellegrinaggio e che raggruppano un gran numero di folli, molti di più, in ogni caso, di quanti ne potrebbero essere forniti dalla città stessa. Questi folli sono alloggiati e mantenuti a spese della città, e tuttavia non sono affatto curati; sono, puramente e semplicemente, gettati in prigione. […] Il fatto è che questa circolazione di folli, il gesto che li scaccia, la loro partenza e il loro imbarco non possono venire spiegati solo con l’utilità sociale o con la sicurezza dei cittadini.
E’ per questo che l’accesso alle chiese è vietato ai folli, mentre il diritto ecclesiastico non proibisce loro l’uso dei sacramenti. La Chiesa non prende sanzioni contro un prete che diventa pazzo; ma a Norimberga, nel 1421, un prete folle è cacciato con una particolare solennità, come se l’impurità fosse moltiplicata a causa del carattere sacro del personaggio, e la città preleva sul proprio bilancio il denaro che deve servirgli da viatico. Accadeva che certi insensati fossero frustati pubblicamente, e che durante una specie di gioco fossero poi inseguiti in una corsa simulata e cacciati dalla città a colpi di verga. Tutte prove che la partenza dei pazzi si inscriveva nel numero di altri esili rituali.
L’acqua e la navigazione hanno davvero questo significato. Prigioniero nella nave da cui non si evade, il folle viene affidato al fiume dalle mille braccia, al mare dalle mille strade, a questa grande incertezza esteriore a tutto. Egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade:solidamente incatenato all’infinito crocevia. E’ il Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero del Passaggio. E non si conosce il paese al quale approderà, come, quando mette piede a terra, non si sada quale paese venga. Egli non ha verità né patria se non in questa distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli…>>.
Michel Foucault (1961), “Storia della follia nell’età classica”, BUR, Milano 1999, pp. 11, 13-19.
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