“C’è, nei confronti delle donne che hanno partecipato alla Resistenza, un misto di curiosità e di sospetto… E’ comprensibile … che una donna abbia offerto assistenza a un prigioniero, a un disperso, a uno sbandato, tanto più se costui è un fidanzato, un padre, un fratello… L’ammirazione e la comprensione diminuiscono, quando l’attività della donna sia stata più impegnativa e determinata da un a scelta individuale, non giustificata da affetti e solidarietà familiari. Per ogni passaggio trasgressivo, la solidarietà diminuisce, fino a giungere all’aperto sospetto e al dileggio.” Miriam Mafai
Anche quest’anno sul nostro portale sarà attiva la rubrica “Storie dalla Resistenza: Verso il 25 Aprile” nella quale saranno contenuti racconti e approfondimenti, capaci di farci riflettere sui drammatici eventi accaduti nel nostro Paese durante la liberazione. L’articolo odierno è stato scritto da Duccio Pedercini, Presidente della sezione ANPI- “Martiri della Storta” di Roma, ed è consuntalbile sul sito www.resistenzaitaliana.it. Come si evince dal titolo stesso della pubblicazione, tratta una delle tante vicende dimenticate e sconosciute della Liberazione: il ruolo delle donne nella Resistenza. In una società in cui la parità di genere è un utopia, il revisionismo storico ha concesso ben poco alla figura femminile nelle vicende avvenute dopo l’8 settembre, eppure, il ruolo delle partigiane è stato delicato e fondamentale.
“Quello della Resistenza al femminile, al pari e più di altre realtà di genere, è un argomento difficile, sottaciuto e sottovalutato per decenni. La guerra contro il nazifascismo è stata rappresentata quasi sempre al maschile relegando la donna a ruoli secondari. Eppure oggi possiamo affermare che senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza e che “le donne furono la Resistenza dei resistenti”, come disse Ferruccio Parri, poiché senza loro sarebbe venuta meno l’organizzazione clandestina e senza le ‘staffette’ la sopravvivenza dei partigiani sarebbe stata più difficile. Erano loro a portare messaggi, medicine, cibo, giornali, armi, esplosivi e i famosi chiodi a tre punte, spesso a prezzo della vita. Fu anche a causa loro che i tedeschi temettero le biciclette e imposero il coprifuoco a Roma durante l’occupazione. Le donne hanno fatto la Resistenza a pieno titolo, hanno partecipato con ruoli attivi, militari, politici, logistici, non ne hanno solo preso parte. Si dice “il contributo delle donne alla Resistenza”, eppure a nessuno verrebbe in mente di dire il “contributo degli uomini”. Dobbiamo opporci alla visione storiografica che cancella le forme di lotta partigiana condotta senza armi. Interpretare la lotta partigiana solo con la figura epica, eroica, che rappresenta il partigiano con il mitra è fuorviante e funzionale a chi vuole sminuire il significato della Resistenza che fu, purtroppo si deve ribadirlo ancora, una guerra per la liberazione dell’Italia da un terribile nemico invasore e non una guerra civile, fu lotta di liberazione di tutti per tutti, donne ed uomini. Per questo è importante la conoscenza anche di un solo un nome, della storia di una donna ‘resistente’, ed è importante dunque che si portino alla luce e si propongano ancora oggi intitolazioni di vie e piazze a donne antifasciste e resistenti, come sta facendo Toponomastica femminile con i progetti Partigiane in città, Largo alle costituenti e Una strada per Miriam, il primo per monitorare le intitolazioni in tutto il Paese, il secondo per dare riconoscimento e pari dignità alle protagoniste della Repubblica, il terzo per raccogliere le firme per intitolare una via a Miriam Mafai, scomparsa nel 2012, al quale si è ‘purtroppo’ recentemente aggiunta la campagna per intitolare una strada a Rita Levi Montalcini. Dietro tutto questo c’è un patrimonio comune che non può e non deve essere dimenticato.
Dopo l’8 settembre del ’43 donne operaie, casalinghe, contadine, studentesse, insegnanti, impiegate, intellettuali, artiste, di ogni età ed estrazione sociale, lavorano nella stampa e nella diffusione clandestina, danno vita ai Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà, organizzano corsi di preparazione tecnica e politica, formano reti, vivono la consapevolezza della giusta causa, entrano in clandestinità, fanno le staffette, le partigiane, conquistano un’arma sul campo. Molte diventano comandanti di bande partigiane, come Valchiria Terradura che a 18 anni è a capo di una squadra di uomini, Medaglia d’Argento al valore militare, Croce al Merito di guerra, Croce di Cavaliere al Merito della Repubblica e grado di Sottotenente. Ma accanto alle partigiane famose, vi furono migliaia di donne che rischiavano la loro vita senza imbracciare un fucile, pur trovandosi spesso, ai posti di blocco o nelle loro case, di fronte quello dei tedeschi durante perquisizioni e retate. Erano loro a nascondere i clandestini, ad aiutare gli ebrei, a vestirli e curarli. Erano le donne impiegate alla posta ed adibite alla cernita della corrispondenza a nascondere le lettere che i delatori inviavano ai comandi tedeschi per denunciare gli antifascisti, e a costo della loro vita avvisavano gli interessati. E sono ancora una volta le donne a prendere parte attiva nell’organizzazione degli scioperi. Sono loro che in assenza degli uomini fanno la fila per il pane con la tessera annonaria, sono loro che lottano per la sopravvivenza dei loro cari e organizzano gli assalti ai depositi di derrate alimentari. Famoso è l’assalto ai forni delle dieci donne nel quartiere Ostiense di Roma, assassinate dai tedeschi e dai militari della PAI al Ponte dell’Industria o ‘ponte di ferro’ come amano chiamarlo i romani, dove solo nel 1997 è stata posta una lapide commemorativa, per iniziativa di Carla Capponi, partigiana dei GAP, Medaglia d’oro al valor militare e parlamentare. E sono ancora le donne a salvare i militari sbandati dai rastrellamenti, le contadine ad ospitarli e guidarli. A Roma, la tredicenne Gloria Chilanti, figlia di partigiani, entra in clandestinità e compila un diario (Bandiera rossa e borsa nera. La resistenza di una adolescente. – Mursia, 1998 e omonimo docufilm della Sacher diretto da Andrea Molaioli), come la sua coetanea Anna Frank. Nasconde civili, porta armi, messaggi, fa attraversare la città a antifascisti ricercati, fonda una organizzazione clandestina di ragazzi che incontra adulti e intellettuali. La sua storia non buca le coscienze e solo da pochi anni è conosciuta agli addetti ai lavori.
E allora mi viene in mente l’efficacia e il ruolo del cinema neorealista, primo fra tutti il film ‘Roma città aperta’, con il quale Roberto Rossellini nel 1945 fece conoscere a tutto il mondo il dramma dell’occupazione nazista a Roma. A ispirare la pellicola furono le vicende di Don Pietro Pappagallo (Aldo Fabrizi – Don Pietro), martire della Chiesa del XX secolo e Medaglia d’oro al merito civile, assassinato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo del ’44 per aver aiutato la Resistenza, e di Teresa Gullace (Anna Magnani – Sora Pina), anche lei Medaglia d’oro al merito civile, assassinata dai nazisti il 3 marzo dello stesso anno per aver tentato di avvicinarsi e parlare al marito rinchiuso in una caserma a seguito di un rastrellamento. Il film non lo racconta, ma alla scena assistono due partigiane, la già ricordata Carla Capponi, e Marisa Musu Medaglia d’argento al valor militare. Vedendo l’uccisione della Gullace, Carla tira fuori la pistola ma viene contemporaneamente protetta dalle altre donne ed arrestata dai tedeschi. Marisa le toglie la pistola e le infila in tasca una tessera fascista che le salverà forse la vita. La scena di Pina che grida “Francesco” prima di essere mitragliata è entrata profondamente nel nostro patrimonio culturale, ma pochi conoscono la storia di Teresa, ricordata in una targa in Viale Giulio Cesare a Roma. Una targa non serve solo a ricordare una persona e a commemorarla, ma a trasmettere e condividere valori positivi, proprio come un film o un libro.
A via Tasso a Roma, tra il settembre del ‘43 e il giugno del ‘44 finirono rinchiuse e torturate 122 donne ma nessuna di loro parlò o tradì i compagni. Il silenzio di quelle donne fu una delle armi più efficaci contro la macchina di morte nazifascista. Quello delle donne era un esercito solidale, silenzioso, senza divisa e senza gradi, un esercito di volontarie della libertà che restituirono senso e valore al ruolo della donna nella società dopo anni di dittatura fascista che le aveva relegate a ruoli secondari in ogni ambito della vita sociale.
Durante la guerra e l’occupazione molte donne furono impiegate in lavori maschili mentre gli uomini erano al fronte, svolgendo i loro ruoli spesso meglio dei maschi. Le storie delle donne che in vario modo partecipano alla Resistenza sono storie eterogenee di donne che trovano però motivazioni ideali comuni che le conducono a scelte coraggiose ed orgogliose, mai scontate o rinnegate. All’inizio è anche la guerra privata di donne che smettono improvvisamente di sentirsi solo madri o figlie, che decidono di lottare non solo contro l’occupante tedesco o i fascisti di Salò, ma per liberare se stesse dai pregiudizi morali e dalle discriminazioni imposte dalla cultura maschile. La Resistenza, delle donne e degli uomini dunque, è nata come spinta a difendersi da una condizione sociale e dalla dittatura e dagli orrori trasformandosi in una reazione attiva e in una volontà di costruire qualcosa di nuovo, al di là della conquista della libertà.
Troppe donne non sono state riconosciute patriote o partigiane e dei loro nomi e coraggio si è persa memoria. Occorre ricordare allora anche il loro contributo di sangue. Di 460.933 qualifiche partigiane riconosciute, circa 53.000 furono assegnate a donne, solo l’11,5%. Le donne partigiane combattenti furono 35 mila, 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna. Furono 4.653 le arrestate e torturate, oltre 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate, 1.070 caddero in combattimento, 19 vennero decorate di Medaglia d’oro al valor militare, 54 con la medaglia d’Argento, 167 con Medaglia di Bronzo. Le donne dunque hanno partecipato a testa alta alla Resistenza ed hanno contribuito al riscatto morale e civile di tutta la società.
Duccio Pedercini
presidente sez. ANPI “Martiri de La Storta” – Roma