La luce della stella del giorno si spegne lentamente, precipitando nel baratro di quell’orizzonte immutato, culla e tomba del suo errare. Tutt’intorno l’ultimo bagliore rossastro che fugge a quel destino puntuale si mescola con la prima ombra della sera, che da ponente, silenziosa, si stende sullo spazio dell’uomo, seguendo le forme sinuose delle siepi infinite che costellano questo nostro mondo.
I colori della vita si offuscano al rintoccare del tempo che inesorabilmente incede nelle paludi dell’esistenza.
Allora il sipario della notte si spalanca sul palcoscenico di una terra indifferente ed ha inizio lo spettacolo del cielo, che si ripete da migliaia di anni, sulle note del canovaccio di sempre.
La trama cosmica viene tessuta in scena dagli attori siderali, che orbitano dinnanzi ad una platea troppo occupata a tener lo sguardo fisso verso il basso.
Non è la ripetitività a renderlo inefficace ma la convinzione intrinseca della sua presenza fissa, come un fattore costante che in alcun modo influisce sul corso degli eventi. O forse è la presunzione di una conoscenza passiva del mondo oltre il mondo che ci rende insensibili agli atti di un melodramma tanto perfetto da far paura. E la paura genera indifferenza. E dall’indifferenza discende l’insensibilità, in presenza della quale lo sguardo resta inevitabilmente chino.
Eppure nel tempo prima del tempo, quando erano i sensi a far da guida, quando non esisteva la materialità esasperata che governa i nostri animi, quando non si conosceva la causa prima delle cose, proprio allora, all’alba dell’era umana, gli esseri più semplici scrutavano il cielo ponendosi domande che ancora oggi assillano le menti. Quei punti immutabili nella sfera celeste eran dei fari, sulla terra e oltre essa.
La misteriosa forza di gravità non bastava a tener la vita incatenata alla roccia perché l’uomo continuava a tendere verso l’universo. Quell’istinto primordiale si traduceva in dottrine variegate, spesso ostili nel reciproco contenuto, in grado di sintetizzare quello o l’altro aspetto, ma in ogni caso ispirate dalla necessità di varcare le colonne d’Ercole erette dall’uomo, da qualche presunto dio o dalla natura.
Attraverso il cammino della storia, i beceri dogmi religiosi hanno tentato di incatenare quell’istinto eretico ma alla fine la luce della ragione umana ha accecato le goffe pretese di coloro che predicano le verità assolute.
Ora sono rimasti in pochi a porsi delle domande. Tremendamente rari sono coloro che si lasciano emozionare.
E troppo spesso lo spettacolo del cielo stellato va in scena dinnanzi una platea anestetizzata, nel teatro del mondo moderno.
L’incedere inesorabile della notte accende i fuochi senza tempo che animano il palcoscenico.
Osservarli è un pò come aprire una finestra sul passato, perché alcuni di quei puntini luminosi distano migliaia di anni luce dalla Terra e dunque giungono nelle forme di migliaia di anni fa. Magari quella luce oggi è scomparsa o magari è più radiosa o magari è qualcos’altro.
Sparsi in distanze che la mente umana non riesce minimamente a concepire ce ne sono un’infinità non numerabile: un numero infinito di possibilità per la vita, in forme imprevedibili e non razionalizzabili.
Mi chiedo come possiamo noi ritenerci tanto speciali da sprecare questo mondo se siamo l’infinita parte di un universo sconosciuto.
Mi chiedo se siamo globalmente coscienti del fatto che anche se mettessimo assieme l’intero bagaglio umano, esso sarebbe un’enormità per ciascun essere vivente e al contempo una nullità oltre la siepe.
Inizia sempre così: una serie di riflessioni esplodono al volgere dello sguardo verso quell’immensità, una serie di domande assillano la mente, come un fiume in piena che non può straripare perché gli argini sono solidi e il letto un buco nero.
E gli argini altro non sono che la limitatezza della nostra ragione, che non può vagar troppo oltre i confini della terra. Il letto altro non è che l’emozione che si scatena repentina al cospetto dello spettacolo del cielo e inghiotte le domande che nascono spontanee tramutandole in un sentimento di ignorante appartenenza a qualcosa più grande del cielo stesso.
E da quell’immensità noi siamo nati. Siam fatti della stessa materia di quegli attori, precipitati dagli abissi cosmici su questo piccolo mondo.
“Tutta la materia di cui siamo fatti noi l’hanno costruita le stelle, tutti gli elementi dall’idrogeno all’uranio sono stati fatti nelle reazioni nucleari che avvengono nelle supernove, cioè queste stelle molto più grosse del Sole che alla fine della loro vita esplodono e sparpagliano nello spazio il risultano di tutte le reazioni nucleari avvenute al loro interno. Per cui noi siamo veramente figli delle stelle” Margherita Hack
In effetti, ora che ci penso, abbiamo molto in comune con gli oggetti cosmici.
La maggior parte degli uomini non brilla affatto, come delle meteore che vagano senza metà nello spazio siderale. Alcuni splendono di una luce riflessa, come i pianeti che in mancanza del Sole sarebbero oscuri.
E poi ci sono quei pochi che brillano di luce propria come le stelle: il loro pensiero e la loro azione ci rendono meno distanti dallo spettacolo del cielo.
La stella del giorno inizia a rischiarare con un timido bagliore lo spazio di levante.
Il sipario pian piano cala sul palcoscenico del mondo e gli attori si celano dietro le quinte del Sole nascente.
È tempo di tornare coi piedi sulla terra.
Il cuore resta ancorato all’emozione indefinita di un cielo stellato.
Le stelle, l’universo, le siepi, quella malinconia di fondo per mondi passati o sognati ma non vissuti…
il modo in cui tutto questo è raccontato mi riportano alle poesie di Leopardi, ai dipinti di Friedrich, alle inquietudini di Goethe.
Solo da un animo intimamente romantico potevano generarsi pensieri del genere. Complimenti.