(seconda parte)
Winston avvertì una stretta al diaframma. Non riusciva a guardare la faccia di Goldstein senza provare un miscuglio di emozioni che gli dava sofferenza. Goldstein aveva […] un volto intelligente e però in qualche modo spregevole, […] stava rivolgendo il solito attacco velenoso alle dottrine del Partito, un attacco così eccessivo e iniquo che non avrebbe tratto in inganno neanche un bambino e pur tuttavia plausibile quanto bastava a trasmettere l’allarmante sensazione che potesse far presa su persone sufficientemente credule e ingenue. Insultava il Grande Fratello, denunciava la dittatura del Partito, esigeva la rottura immediata della pace con l’Eurasia, chiedeva a gran voce libertà di espressione, libertà di stampa, libertà di associazione, libertà di pensiero, con toni isterici urlava che la Rivoluzione era stata tradita. […] Nel frattempo sul teleschermo alle sue spalle, per sciogliere ogni dubbio sui fini reconditi del suo capzioso sproloquio, marciavano le sterminate colonne dell’esercito eurasiatico: una fila dopo l’altra di uomini massicci, con inespressive facce asiatiche, che passavano a ondate sulla superficie dello schermo e poi sparivano, solo per essere subito sostituiti da altri uomini perfettamente uguali a loro. Il passo battuto dagli stivali dei soldati, monotono e ritmato, faceva da sfondo sonoro alla voce belante di Goldstein.
L’Odio era iniziato da meno di trenta secondi e già da una buona metà dei presenti prorompevano incontrollabili manifestazioni di collera. Quella tronfia faccia ovina sul teleschermo e la terribile possanza dell’esercito eurasiatico alle sue spalle andavano al di là di ogni limite di sopportazione. In aggiunta a ciò, la vista di Goldstein, o addirittura il solo pensare a lui, producevano automaticamente sentimenti di paura e di rabbia. Goldstein costituiva un oggetto costante d’odio. […]
Nel secondo minuto, l’Odio raggiunse il parossismo. I presenti si sedevano e balzavano in piedi di continuo, urlando con tutte le loro forze nel tentativo di coprire l’esasperante belato che proveniva dal teleschermo; la donna dai capelli color sabbia si era fatta tutta rossa in faccia, mentre la bocca le si apriva e chiudeva come quella di un pesce tirato fuori dall’acqua. Perfino il tozzo volto di O’Brien si era infiammato. Sedeva ben dritto al suo posto, col petto poderoso che si gonfiava e fremeva come se dovesse reggere l’impatto di un’onda. La ragazza dai capelli neri che sedeva alle spalle di Winston aveva cominciato a urlare: «Porco! Porco! Porco!». A un tratto afferrò un pesante dizionario di neolingua e lo scagliò contro lo schermo: il volume colpì il naso di Goldstein, poi rimbalzò via, mentre la voce seguitava inesorabilmente a farsi sentire. In un momento di lucidità Winston si rese conto che stava gridando come tutti gli altri, battendo con forza il tallone contro il piolo della sedia. La cosa orribile dei Due Minuti d’Odio era che nessuno veniva obbligato a recitare. Evitare di farsi coinvolgere era infatti impossibile. Un’estasi orrenda, indotta da un misto di paura e di sordo rancore, un desiderio di uccidere, di torturare, di spaccare facce a martellate, sembrava attraversare come una corrente elettrica tutte le persone lì raccolte, trasformando il singolo individuo, anche contro la sua volontà, in un folle urlante, il volto alterato da smorfie. E tuttavia, la rabbia che ognuno provava costituiva un’emozione astratta, indiretta, che era possibile spostare da un oggetto all’altro come una fiamma ossidrica. Così, un istante dopo, l’odio di Winston non era più rivolto contro Goldstein, ma contro il Grande Fratello, il Partito e la Psicopolizia. In momenti simili il suo affetto andava a quel solitario e deriso eretico sullo schermo, difensore unico della verità e della sanità mentale in un mondo di menzogne. Passava un altro istante, e Winston si ritrovava in perfetta sintonia con quelli intorno a lui e tutto ciò che si diceva di Goldstein gli sembrava vero. Allora l’intimo disgusto che avvertiva nei confronti del Grande Fratello si mutava in adorazione e il Grande Fratello pareva sollevarsi ad altezze vertiginose, protettore invincibile e impavido, immoto come una roccia davanti alle orde dell’Asia, e Goldstein, a dispetto del suo isolamento, della sua impotenza e dei dubbi che avvolgevano la sua stessa esistenza, appariva come un sinistro incantatore, capace di abbattere l’edificio della civiltà con la sola forza della sua voce.
[…]
L’Odio raggiunse il culmine. La voce di Goldstein era diventata adesso un belato a tutti gli effetti. Per un istante la sua faccia si trasformò in quella di una pecora, che a sua volta si dissolse nella figura di un soldato eurasiatico che avanzava, enorme e spaventevole, sparando raffiche dalla mitragliatrice. Parve anzi che il soldato fuoriuscisse dallo schermo, tanto che alcuni di quelli che occupavano la prima fila fecero un balzo all’indietro sui sedili. Nello stesso momento, però, facendo tirare a tutti un sospiro di sollievo, la sua minacciosa figura si dissolse per lasciare il posto al volto del Grande Fratello, i capelli e i baffi neri, irraggiante forza e una misteriosa serenità. Così grande che quasi riempiva lo schermo. Nessuno udì quello che il Grande Fratello stava dicendo. Erano solo parole d’incoraggiamento, di quelle che si dicono nel fragore della battaglia, impossibili a distinguersi, ma che fanno riacquistare fiducia per il solo fatto di essere pronunciate. Poi anche il suo volto si dissolse, per lasciare il posto ai tre slogan del Partito, vergati in lettere maiuscole:
LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L’IGNORANZA È FORZA
Il volto del Grande Fratello parve però indugiare per diversi secondi sullo schermo, come se l’impatto che aveva esercitato sulle pupille dei presenti fosse troppo intenso per poter essere eliminato all’improvviso. La donna dai capelli color sabbia, allungandosi al di sopra del sedile che aveva davanti, tese le braccia verso lo schermo e mosse le labbra in un tremulo bisbiglio nel quale parve di poter distinguere le parole «Mio salvatore!», dopodiché nascose il volto fra le mani. Era chiaro che stava pregando.
In quel momento tutti intonarono una sorta di salmodia lenta, ritmata, solenne: «G.F.!… G.F.!… G.F.!» incessantemente, lentamente, con una lunga pausa fra la G e la F. […] Si trattava in parte di un inno alla saggezza e alla maestà del Grande Fratello, ma soprattutto di un atto di autoipnosi, di un volontario ottundimento della coscienza, raggiunto per mezzo del ritmo. Winston avvertì un gelo alle viscere. Durante i Due Minuti d’Odio non poteva sottrarsi al delirio generale, ma questo canto primitivo, «G.F.!… G.F.!», lo riempiva sempre di orrore. Naturalmente, cantava come tutti gli altri, era impossibile fare altrimenti: dissimulare i propri sentimenti, controllare i movimenti del volto, fare quello che facevano gli altri, era una reazione istintiva. Ciononostante, vi fu uno spazio di un paio di secondi durante i quali l’espressione dei suoi occhi avrebbe potuto tradirlo, e fu proprio allora che la cosa accadde, ammesso che davvero fosse accaduta.
Per un attimo Winston incrociò lo sguardo di O’Brien. Questi si era levato in piedi, si era tolto gli occhiali e se li stava risistemando sul naso col suo gesto caratteristico. Ci fu tuttavia una frazione di secondo in cui i loro occhi si incontrarono e in quel brevissimo arco di tempo Winston seppe (sì, seppe) che O’Brien stava pensando le stesse cose che stava pensando lui. Era stato inviato un messaggio inequivocabile. Era come se le loro menti si fossero aperte e i pensieri fluissero, attraverso gli occhi, dall’uno all’altro. “Sono con te” sembrava dirgli O’Brien, “so esattamente quello che provi, so tutto del tuo disprezzo, del tuo odio, del tuo disgusto, ma non temere, io sono dalla tua parte!”. Poi quel lampo di mutua intesa si era spento e il volto di O’Brien era tornato imperscrutabile come quello di tutti gli altri. […] L’idea di dare un seguito al loro effimero contatto non gli passò neanche per la mente. Sarebbe stato pericolosissimo, anche ammettendo che avesse saputo come mettere in pratica un simile progetto. Per un secondo, forse due, si erano scambiati un’occhiata strana ed enigmatica, tutto qui. Ma perfino una cosa del genere costituiva un evento memorabile nella vita di solitaria segregazione in cui si era costretti a vivere.
Winston si scosse da quei pensieri e raddrizzò la schiena. Ruttò: il gin gli stava risalendo dallo stomaco.
Volse di nuovo lo sguardo alla pagina, per scoprire che durante le sue vane fantasticherie aveva continuato a scrivere, automaticamente. E non si trattava più della grafia goffa e incerta di prima. La penna era scivolata voluttuosamente sulla carta levigata, vergando in chiare e grandi maiuscole le parole:
ABBASSO IL GRANDE FRATELLO!
ABBASSO IL GRANDE FRATELLO!
ABBASSO IL GRANDE FRATELLO!
[…]
Il sole si era spostato nel cielo e le innumerevoli finestre del Ministero della Verità, ora che non ne ricevevano più la luce, avevano un aspetto sinistro, come le feritoie di una fortezza. La vista di quell’enorme struttura piramidale lo gettò nello sconforto. Era troppo forte, impossibile dargli l’assalto. Neanche mille bombe-razzo lo avrebbero abbattuto. Ancora una volta si chiese per chi stesse scrivendo il suo diario. Per il futuro, per il passato, per un’epoca che poteva essere del tutto immaginaria. E davanti a lui non si parava la morte ma l’annientamento. Il diario sarebbe stato ridotto in cenere e lui, vaporizzato. Solo la Psicopolizia l’avrebbe letto, prima di spazzarlo via dall’esistenza e dalla memoria. Come potevate rivolgervi al futuro quando di voi non sarebbe sopravvissuta, fisicamente, la benché minima traccia, nemmeno una parola, scribacchiata su un pezzo di carta? […] Egli era un fantasma isolato, che proclamava una verità che nessuno avrebbe mai udito, ma finché avesse continuato a proclamarla, in un qualche misterioso modo l’umana catena non si sarebbe spezzata. Non era facendosi udire che si salvaguardava il retaggio degli uomini, ma conservando la propria integrità mentale. Tornò al tavolo, intinse la penna nell’inchiostro e scrisse:
Al futuro o al passato, a un tempo in cui il pensiero sia libero, gli uomini siano gli uni diversi dagli altri e non vivano in solitudine… a un tempo in cui la verità esista e non sia possibile disfare ciò che è stato fatto:
Dall’età dell’uniformità, dall’età della solitudine, dall’età del Grande Fratello, dall’età del bipensiero…
Salve!
[…]
Winston stava sognando la madre.
Doveva avere dieci o undici anni, pensò, quando sua madre era scomparsa. […] Non riusciva a ricordare che cosa fosse successo, ma sapeva, nel sogno, che in qualche modo le vite della madre e della sorella erano state sacrificate per salvare la sua. Era uno di quei sogni che, pur conservando tutto ciò che caratterizza il sogno, sono una continuazione della nostra vita interiore, dandoci coscienza di fatti e idee che continuano ad apparirci nuovi e meritevoli della nostra attenzione anche quando siamo svegli. Il pensiero che ora colpì Winston fu che la morte della madre si era verificata, quasi trent’anni prima, in circostanze tragiche e dolorose che adesso sarebbero state impossibili. Si rese conto che il tragico apparteneva a un tempo remoto, a un tempo in cui ancora esistevano la vita privata, l’amore, l’amicizia, a un tempo in cui i membri di una famiglia vivevano l’uno accanto all’altro senza doversene chiedere il motivo. Il ricordo di sua madre gli straziava il cuore, perché sapeva che era morta amandolo, quando lui era troppo piccolo ed egoista per amarla a sua volta, e perché in un certo senso, che gli sfuggiva, aveva sacrificato se stessa a un ideale di devozione privato e inalterabile. Oggi cose simili non sarebbero potute accadere. Oggi la paura, l’odio e il dolore c’erano ancora, ma non esistevano più pene profonde e complesse, né la dignità data dall’emozione.
[…]
La cosa terribile, pensò per la milionesima volta… era che poteva essere tutto vero. Se il Partito poteva ficcare le mani nel passato e dire di questo o quell’avvenimento che non era mai accaduto, ciò non era forse ancora più terribile della tortura o della morte?
Il Partito diceva che l’Oceania non era mai stata alleata dell’Eurasia. Lui, Winston Smith, sapeva che appena quattro anni prima l’Oceania era stata alleata dell’Eurasia. Ma questa conoscenza, dove si trovava? Solo all’interno della sua coscienza, che in ogni caso sarebbe stata presto annientata. E se tutti quanti accettavano la menzogna imposta dal Partito, se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera. “Chi controlla il passato” diceva lo slogan del Partito “controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.” E però il passato, sebbene fosse per sua stessa natura modificabile, non era mai stato modificato. Quel che era vero adesso, lo era da sempre e per sempre. Era semplicissimo, bastava conseguire una serie infinita di vittorie sulla propria memoria. Lo chiamavano “controllo della realtà”. La parola in neolingua era: “bipensiero”. […] La mente gli scivolò nel mondo labirintico del bipensiero. Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda; sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo in entrambe, fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale proprio nell’atto di rivendicarla; credere che la democrazia sia impossibile e nello stesso tempo vedere nel Partito l’unico suo garante; dimenticare tutto ciò che era necessario dimenticare ma, all’occorrenza, essere pronti a richiamarlo alla memoria, per poi eventualmente dimenticarlo di nuovo. Soprattutto, saper applicare il medesimo procedimento al procedimento stesso. Era questa, la sottigliezza estrema: essere pienamente con-sapevoli nell’indurre l’inconsapevolezza e diventare poi inconsapevoli della pratica ipnotica che avevate appena posto in atto. Anche la sola comprensione della parola “bipensiero” ne implicava l’utilizzazione. […] Il piccolo senso di piacere che fino a quel momento aveva accompagnato le sue riflessioni scomparve. Il passato, rifletté, non era stato solo modificato, era stato distrutto completamente. E difatti, com’era possibile fissare perfino i fatti più evidenti quando ne esisteva traccia solo nella propria memoria? […] Tutto svaniva nella nebbia. Il passato veniva cancellato, la cancellazione dimenticata, e la menzogna diventava verità.
[…]
Il passato non solo cambiava, ma cambiava in continuazione. Ciò che però gli dava la stessa angoscia di un incubo era il fatto di non essere mai riuscito a capire perché venisse messa su tutta quella impostura. I vantaggi immediati della falsificazione del passato erano evidenti, ma i fini ultimi restavano misteriosi. Prese di nuovo la penna e scrisse:
Capisco COME, ma non capisco PERCHÉ.
(continua)
G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2002.