Quella che segue è una di quelle storie che si dimenticano senza che nessuno ne parli, le racconti o si interroghi. Parla di un posto in cui tutto è vietato e molto deve essere coperto, un posto dove l’uomo viene tenuto nascosto agli altri uomini. Questa, è una storia di carcere, scritta da chi ha avuto coraggio e al carcere ha dedicato la sua vita perchè, “bisogna sempre avere il sospetto che nell’uomo esistano delle potenzialità positive“. “Ho preso una matita nuova e provo a raccontare; lo faccio perchè non debba mai dimenticare che il compito a cui vengo chiamato è sempre diverso e non è consuetudine, uso; perchè il carcere non sia consuetudine, perchè l’uomo è differente dall’uomo; perchè tollerare e crescere nei ricordi non è cadere; perchè l’esperienza è attesa; perchè la prefazione è anche all’ultima pagina, inizio e termine“.
<< Comincia a fare buio. Nell’imbrunire si raccolgono gli sgomenti, gli uomini si ripongono, le stanze si recingono, nasce la timidezza e vive il coraggio verso se stessi e non più con gli altri. E’ strano! Stasera i bracci sono mossi, sono deserti come ogni momento notturno, ma li sento agitati. Le lingue si mescolano, grida senza senso, straniere. La gente si chiama da questa a quell’altra stanza e non dice e non parla. Sta accadendo qualcosa; vado, corro, mi affretto, ma forse rimango lì dove sono. Precipitarsi, piano per non disturbare l’immobilità del carcere; i corridoi sono ancora più lunghi e i pavimenti arati da solchi profondi e senza semi. La cella numero uno; la luce è accesa; un ragazzo sta morendo. C’è il medico. La medicina arriva sin dove vuole l’uomo; quel ragazzo non vuole. I compagni gli fanno spazio, gli danno aria. Il dottore continua la sua scienza e strilla ordini; un detenuto si pone a cavalcioni di quel corpo e tira pugni sul torace già inerte. Nella cella numero uno si crea la morte; nella cella numero uno non c’è più il detenuto, c’è l’uomo; si parla in silenzio e si guarda fuori, si cerca il viso degli altri. ll medico getta le braccia: “BASTA, E’ ANDATO”. Sulla branda il ragazzo muore, gli occhi chiusi, l’espressione disgustata, un segno rosso sul collo. Usciamo dalla cella, nessuno conosce il vicino ma gli vuole bene. C’è chi piange, chi in fretta costruisce una barella. Lo adagiano, lo mettono in ordine, in corteo lo portano in chiesa; stanno un minuto, lo salutano e vanno via. Il ragazzo si è impiccato; è morto nel suo vomito, nel vomito della violenza; una cinghia, un tubo, la voglia di morire; è morto a vent’anni nel cesso di una galera; è morto solo, è morto che era già morto. Si è fatta notte, i corridoi sono più stretti, i muri più bassi >>.Carlo Maria Marchi, Nascondere l’uomo, SpazioArte, L’Aquila 2002, pp. 75-76